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GARIBALDI: LINGUA, STORIA E SOCIETÀ
Di Nando Romano
Preside dell'Ufficio Scuole del Consolato Generale d'Italia a Rosario.

654Questa sera ho davvero piacere che le mie parole siano pronunziate nella “Dante” di Rosario, in occasione poi della VII Settimana della lingua italiana: voglio ricordare, infatti, che Menotti Garibaldi fu tra i fondatori dell’Associazione “Dante Alighieri” per la diffusione della lingua italiana. Una lingua che Giuseppe Garibaldi profondamente amò ed identico amore instillò ai figli: Menotti, per essere nato qui, ed educato in parte in Uruguay è un vostro compaesano, insieme ai suoi fratelli, figli di Anita, a fianco in una rara foto, e con loro voi condividete questo amore. Quando Luisa Biasetti mi stimolò a proporre questo titolo avevo appena letto qualche libro di storia e controstoria i cui autori erano in genere giornalisti, i quali danno dell’asino a Garibaldi, finendo per giudicarsi da sé: di questo tipo di falsa storia ebbi occasione di discettare nella mia conferenza: Garibaldi uno e due nel quadro del Risorgimento, che ho tenuto in occasione del 25 di Aprile 2007 a Rafaela. Nacque così l’idea di interessarmi della lingua e della cultura di Garibaldi, argomenti di cui in genere si interessano gli storici e non i linguisti. Della cultura ho parlato l’11 Ottobre scorso al VII Encuentro de Arte, Creación e Identidad cultural en América Latina, presso la Facultad de Humanidades y Artes, dell’Università statale di Rosario: un intervento nel quale ho confrontato le descrizioni antropologiche di Garibaldi con la poesia di José Hernández autore del Martin Fierro, riscontrando suggestioni degne della letteratura “gauchesca” nelle Memorie di Garibaldi. Della lingua e delle lingue dell’Eroe parlerò stasera cercando di inquadrarle nella storia e nella società del tempo.
“Far studiare i giovani destinati al mare, a Torino o a Parigi, ed inviarli a bordo oltre i vent’anni è sistema pessimo. - afferma Garibaldi nelle sue Memorie (p. 12 dell’edizione Cappelli del 1932, cui fanno riferimento i numeri tra parentesi qui di seguito) gentilmente prestatemi dalla “Dante” di Rosario. -  Io credo meglio far fare i loro studi a bordo e la pratica di navigazione nello stesso tempo.” L’eroe bambino fremeva, davanti al mare, al pensiero dei viaggi in terre lontane, col desiderio di conoscere gente e genti diverse; nel porto di Nizza e dai racconti del padre “marino”, apprende tutti i segreti dell'arte nautica, ma specie il coraggio. Nascere a Nizza nel 1807 da genitori liguri - giacché la famiglia paterna si era spostata a Nizza da Chiavari verso il 1770 e la madre era di Loano nella Riviera di Ponente – voleva significare essere un ribelle, un avventuroso, perlomeno: la storia della città se ne fa testimone. Nizza, fondata dai greci focesi di Massilia, nel 600 a.C, si da al conte Amedeo VII nel 1338 sì da costituire il solo porto dello stato savoiardo. Contea occitana, comincia a differenziarsi dalla Provenza, alla ricerca di una identità che ancora oggi viene fortemente protestata, a Nizza, anzi a “Nissa”, infatti, il francese ed i Francesi non erano benvoluti e continue furono le guerre che la città dovette sostenere contro di loro: nel 1543 resistette ad un assedio franco-turco mentre nel 1691 i Francesi la occuparono fino al ’96; invasa di nuovo nel 1705 dopo cinquantuno giorni di eroica resistenza, castello e forti vengono rasi al suolo. “Della storia della sua Nizza – testimonia il biografo di Garibaldi, Alberto Mario - Giuseppe fu amantissimo, e si deliziava di narrarla agli amici e agli stranieri che la visitavano, conducendoli sopra i bastioni e sulle rovine del famoso castello, illustrandone ogni zolla e ogni pietra. E quasi presago del futuro si compiaceva nel dimostrare che Nizza era italianissima e che sempre i Nizzardi furono in guerra contro i Francesi e contro i Provenzali; che tutte le rovine di Nizza sono state cagionate da guerre, che l'antipatia dei Nizzardi per la signoria francese s'addita nei ruderi della città come nel cuore dei cittadini. Quando si parlava davanti a lui della festa del 15 agosto, festa che fu fissata da Napoleone per celebrare i suoi fasti e il "ristabilimento della vera religione in Francia" egli ben altra ragione adduceva per tenere a memoria il 15 agosto, essendo quel giorno memorabile per avere i Nizzardi sconfitti i francesi alleati dei turchi.”. Restituita ai Savoia, comincia per Nizza un pacifico periodo commerciale: la città perde l’assetto di una fortezza e molti liguri e piemontesi, come i Garibaldi, vi si stabiliscono. Il nizzardo avrà due tensioni, da un lato tenderà sempre più verso il piemontese, il ligure e l’italiano, dall’altro verso il francese: Emanuele Filiberto, con le lettere patenti del 1561, aveva già sancito che il francese era obbligatorio nelle zone provenzali e franco-provenzali, e quindi anche nella Savoia e nella Valle d'Aosta nonché nelle valli valdesi; infatti il padre del presidente Pellegrini, Carlos Enrique “el gringo”, suddito del re di Sardegna, nato a Chambery nel 1800, era di formazione e lingua francese.
654In queste terre il francese vigerà fino al 1860, quando la situazione storica sarà completamente cambiata sull’uno e sull’altro versante: Nizza e la Savoia saranno annesse alla Francia, i giornali italiani chiusi, mentre gli orgogliosi provenzali daranno luogo al "Félibrige" movimento per la promozione di tutti i parlari d'Oc, fondato nel 1854 da Fréderi Mistral (1830-1914), Nobel per la letteratura nel 1904; in senso lato, "felibri" sono coloro che si battono per la parlata materna elevandola da "dialetto" a "lingua", come Pier Paolo Pasolini e i soci dell' "Academiuta di lenga furlana" di Casarsa della Letizia. I Savoiardi no, ché nulla sapevano della loro lingua e credevano e spesso credono di parlare un “patois” francese, sarà l’Ascoli a scoprire nel 1870 che essi parlano la terza lingua di Francia: il francoprovenzale, usato anche presso la mia Foggia a Celle San Vito e Faeto, lu Bburgh’ e lu Ciattei, il Borgo ed il Castello, ché così li chiamano i francoprovenzali di Puglia.
Per la verità alla fine del Settecento non era mancata l’idea di fare del piemontese la lingua ufficiale del Regno di Sardegna, presto abortita anche a causa della rivoluzione che imponeva il francese, lingua che nonostante la caduta di Napoleone avrebbe avuto una forte influenza sulle altre per tutto l’Ottocento e per una parte del primo Novecento, ma specie sull’italiano dove ancora oggi i nomi stranieri e strani si pronunziano tronchi come tabù o Alì Agcà. I Nizzardi sono colti ed amano il loro “patois”, a tutt’oggi lo definiscono una lingua a sé; il primo testo stampato in nizzardo, a Torino nel 1492, fu: "Lo Compendion de lo Abaco" un trattato di aritmetica di Francesco Pellos dal quale traggo questo problemino che offro alla vostra attenzione:
“Item es un vas que es plen de oly, et ten 30 cartins, et ha tres canons chi sont en tala maniera proporcionats: si tu lo prumier canon trayhas defora, adunques lo oly se’n va en una hora tot defora, e si tu trases lo segont canon defora sensa los autres dos, adunques lo oly va tot defora en tres horas, et sy traes lo ters canon defora sensa los autres dos, adunques l’oly va tot defora en 5 horas. Et sapias che ven un cas che sera forsa che lo vas sia vesat plus prest che si pusca fayre. Et per tant yeu ty demandi si tu en un cop traes los tres canons defora, en cant de temps lo oly sia tot defora?”
La data è quella della scoperta dell’America perciò Garibaldi non poteva parlava così, giacché nonostante tutto il nizzardo, come ho già riferito, si sarebbe andato anche francesizzando nei secoli a seguire, come pure il provenzale, il franco-provenzale ed il piemontese, eccone il risultato in una poesia dedicata a Carlo Felice, re di Sardegna nel 1824, da Joseph-Rosalinde Rancher, era l’epoca di Garibaldi:

654"... Un bouon Paire, un bouon Rei s’aspera a bras dubert :
Parmi de tendre enfan gusterà lu delissi
De courre su li flou dai nouostre bei prat ver.”

I francesi eran tornati nemici con la rivoluzione: Nizza fu annessa alla Francia dal 1792 al 1814 sicché Garibaldi nacque francese e dovette fare i conti con questa lingua, almeno all’epoca delle asticelle e, giacché la politica linguistica rivoluzionaria si basa sull’idea che, per diffondere i principi della rivoluzione, occorreva diffondere la conoscenza e l’uso della lingua francese fra coloro che parlavano altre lingue e dialetti. La città era insofferente dell’Impero e specie durante il periodo del blocco continentale, che l’impoveriva, sicché fu caratterizzata dalla renitenza alla leva dei giovani del 1795, detti: i Marialuisa, ben collegati ai Barbetti, bande di ribelli fomentati dal re di Sardegna. Questo il clima in cui nacque Garibaldi: “nissart”, suddito sardo, italiano, cittadino del mondo, ma mai francese, per atavica insofferenza. Fece però tesoro delle idee rivoluzionarie anche se, proprio per l’insofferenza verso i francesi, privilegiò le esperienze e la cultura del luogo ben sintetizzate dal “patois” nizzardo, giacché egli viveva profondamente la cultura locale e chissà quante volte sarà corso dietro alle bande musicali al suono del piffero che intonava la farandola, musica e danza locale. Ve la faccio ascoltare.
Per l’influenza di questo battagliero ambiente nizzardo e ligure, nello stesso tempo, Jòusé, come era chiamato a Nizza, o Pepin, come lo era nel dialetto ligure, ribelle anche lui, si orientò verso la cultura italiana mentre il fratello minore Felice Garibaldi, anzi Garibaldy con y greco finale, era piuttosto orientato verso la lingua francese, ciò che pareva esser più fine e lo parve non solo a lui ma anche a molti altri italiani fino a tempi molto vicini a noi.
 All’età che Garibaldi consiglia per l’inizio del curriculum marinaresco, gli otto anni, era in atto il Congresso di Vienna: la madre, Rosa Raimondo spaventata dalla tragedia delle guerre napoleoniche, spinge il figlio ad intraprendere la carriera ecclesiastica – e qui mi sembra di ripercorrere la vicenda de Le rouge e le noir di Sthendal - e lo mette a lezione da due preti che il giovane non apprezza perché, secondo Alberto Mario, sarebbero stati incapaci di mostrare ai Nizzardi d’essere italiani ma che in compenso gli fanno anche qualche lezione di latino, nozioni che non rimarranno nel suo bagaglio linguistico ma che concorreranno alla sua formazione. Appare scontato che la lingua d’oïl, già allora d’“oui”, si sia aggiunta all’occitano-nizzardo, d’”hoc”, e al ligure dei genitori, dialetto di cui il ragazzo conosceva tutti i canti che andava gridando nelle vie che menavano al porto. Il francese fu tuttavia molto importante per l’Eroe ed i suoi scritti ne recano traccia infiorati come sono da gallicismi come: déjuner, per cui il Generale aveva una predilizione, ma anche i toponimi della guerra franco-prussiana, cui partecipò, prendendo la bandiera del reggimento 61° Pomerania, l’unica che vendicò l’onore della Francia, sono precisi e corretti, come forêt de la Serre o Lentenay, o persino Dijon al posto di Digione. Come dire: a Nizza odiamo i Francesi ma il francese prima o poi ci può essere utile.
654Afferma Garibaldi nelle sue Memorie (p. 20): “Se avessi avuto più discernimento ed avessi potuto indovinare le future mie relazioni cogli Inglesi, io avrei potuto studiare più acuratamente la loro lingua, ciocchè potevo fare col mio secondo maestro, il padre Giaume, prete spregiudicato, e versatissimo nella bella lingua di Byron.”. Non è dunque pensabile che a Garibaldi si proponesse di studiare l’inglese, forse in vista di emigrare negli Stati Uniti, come il fratello Angelo, e non anche il francese. Se non ha un buon ricordo dei suoi primi due precettori, anche perché preti, “Del sig.r Arena, terzo mio maestro d’italiano, calligrafia e matematica, conservo cara rimembranza (…) per avermi iniziato nella lingua patria, e nella storia romana.” (Ibidem). Forse una virgola apposta dopo “terzo mio maestro” ci avrebbe meglio chiarito che la lingua che Garibaldi studiò sulle prime fu il francese, come sembra intendersi nella frase: “per avermi iniziato nella lingua patria”.
Autodidatta, si interessa soprattutto di matematica, astronomia e geografia avendo ereditato dalla madre, cui resterà sempre legato, l’abito della lettura e della scrittura, ma anche per prendere la patente di capitano. Garibaldi leggerà e scriverà e comporrà ogni giorno della sua vita, in qualsiasi condizione. Un primo inventario del fondo librario ch’egli lasciò a Caprera fu redatto dal notaio de La Maddalena Raimondo Altea, nell'ottobre del 1882, a pochi mesi dalla morte del Generale: vi sono elencati, tra gli altri beni, anche 3.866 volumi in varie lingue. Qui a fianco un ex-libris di Garibaldi. Segno della sua cultura.
Giacché l’avventuroso ragazzo è più che deciso a navigare, il padre lo imbarca, nel 1822 all’età di quindici anni, sotto la direzione di Angelo Pesante di San Remo, un capitano che Garibaldi amò molto, sicché la sua formazione marinaresca fu ligure: dei marinai liguri Garibaldi visse tutte le ansie e le esperienze perfezionando quella parte ligure del suo universo linguistico che aveva trovato in casa: ligure ponentino con due punti di riferimento: San Remo e Loano in provincia di Savona.
Nel 1814, unita di forza la Liguria al Piemonte, i Liguri, vieppiù sentirono l’impulso all’indipendenza sicché Genova divenne la centrale dei ribelli e delle sette segrete, un nome vale per tutto: Giuseppe Mazzini. E, non potendo i Liguri liberare la loro antica e gloriosa repubblica dalle “marmotte” piemontesi, scelsero, fra l’altro, di spostare la loro marineria altrove: essi non potevano andare d’accordo con i Piemontesi antiquati e codini, almeno fino alla fine degli anni Trenta di quel secolo; ma questo discorso l’ho già fatto l’anno scorso nella mia relazione: Mimesis, presenza ed identità degli italiani a Rosario, per il VI Encuentro de Arte, Creación e Identidad cultural en América Latina,che potete trovare sul mio sito. Favoriti dal dittatore Rosas, in epoca in cui l’immigrazione era vietata, scesero sul Litoral ben seicento imbarcazioni e tutte liguri, che, issarono bandiera argentina, costituendo un primo forte nucleo della locale flotta mercantile ed un primo esempio di quella mìmesis che portò alla perdita della lingua e dei caratteri originari costituendo un modello per le masse che sarebbero arrivate dopo in queste contrade. Questa è solo una premessa, tuttavia molto significativa, quasi a dire che l’America stava aspettando Garibaldi, un marinaio ligure, nato in un ambiente plurilingue dove francese, italiano, e nizzardo e ligure costituivano le lingue ed i “patois” dell’infanzia. Alle competenze marinaresche ed al relativo lessico il giovane Garibaldi dovette certamente aggiungere un’altra lingua: possiamo ipotizzare che Garibaldi conoscesse una lingua speciale che si parlava solo nel Mediterraneo e nei suoi porti: la lingua franca, sabir o petit mauresque, un “pidgin” che consentiva ai marinai di intendersi in tutto l’antico Mare Nostrum. Un ragazzo di quindici anni imbarcato per vari anni, marinaio provetto non poteva non conoscerla, non poteva non usare questo importante strumento di mediazione estintosi nella prima metà del Novecento a seguito della colonizzazione del Nord-Africa. La lingua franca non è una riduzione o un adattamento è una vera lingua, anzi una vera… interlingua che possiede strutture proprie sia pure semplificate.
Questo si può definire il bagaglio linguistico di partenza di Garibaldi, ma prima di andare avanti consentitemi una osservazione neurolinguistica: si è da poco scoperto che coloro che hanno una predisposizione alle lingue, non lo devono solo al fatto di nascere in ambiente plurilingue, perché anche in questi casi il parlante può selezionare la lingua o le lingue da usare. L'area che presiede alla percezione dei suoni è in una circonvoluzione cerebrale che racchiude la corteccia uditiva, chiamata Giro di Heschl, coloro che sono versati nelle lingue hanno il Giro di Heschl un po’ più sviluppato degli altri. Mio padre, Michele, era in grado di imitare qualsiasi dialetto italiano, suscitando la meraviglia degli astanti, fu in Etiopia per pochi anni e riuscì ad apprendere l’amarico, sicché l’Anonima strade se ne servì come interprete. Era un affabulatore. Ho voluto controllarlo: ho mandato delle sue espressioni alla nostra scuola di Addis Abeba, mi sono ritornate quasi uguali. Aveva il Giro di Heschl più sviluppato, come credo Garibaldi che per tutta la vita fu un grande comunicatore in qualsiasi ambiente ed in qualsiasi nazione, anzi questa è la caratteristica che colpiva i suoi interlocutori: la capacità di comunicare dell’Eroe. Ecco una testimonianza, ancora, che supporta questa mia tesi: “Entrai 654in quella casa – afferma Garibaldi, ricordando i mesi in cui fu costretto a restare a Costantinopoli perché infermo e per la guerra Russo-Turca - maestro di tre raggazzi, e profitai di tale periodo di quiete per studiare un po’ di greco, dimenticato, poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni.” (27). Un mestiere, peraltro, il precettore, che non abbandonerà al momento del bisogno gli sarà utile più in là a Montevideo nel 1842, prima del confronto con Brown: “Due occupazioni di poco prodoto veramente, ma che servirono all’alimento, io assunsi fratanto, e furono quella di sensale mercantile; ed alcune lezioni di matematiche, date nll’istituto dello stimabile istitutore sig. Paolo Semidei.” (127). Ciò che dimostra quanto siano stolti e disinformati i suoi detrattori che si attaccano a certe varianti che la sua scrittura aveva rispetto ad un presunto italiano, in un’epoca in cui questa lingua era parlata dal 3% della popolazione, quasi tutti riuniti in Toscana, ed ancor meno scrivevano e, se lo facevano, non con la stessa intensità di Giuseppe Garibaldi.
Su questa base comincia una nuova storia, anzi un Nuovo Mondo: “La salutai finalmente, e le dissi: “ tu devi esser mia”. Parlavo poco il portoghese, ed articolai le proterve parole in italiano. Comunque io fui magnetico nella mia insolenza.”. Racconta Garibaldi a proposito della “love story” con Anita che incominciò nel 1839. La sua frequentazione del portoghese iniziò nel Dicembre del 1835 quando giunse a Rio de Janeiro dove ottenne una patente di corsa: Garibaldi si imbarcò l’8 Maggio del 1837 partecipando alla rivolta dei “Farrapos”, gli straccioni, e alla lotta della repubblica del Rio Grande do Sul, dopo essere stato un anno e mezzo a Rio, quanto basta per infarinarsi del portoghese.
Il primo incontro con lo spagnolo gli occorse proprio durante questa guerra, in Uruguay: a circa quaranta miglia da Montevideo, verso l’interno del Plata, dove nel Giugno del 1837, prese terra su di una tavola, essendo il mare molto agitato, alla punta di Jesus Maria nelle “barrancas”. Raggiunta una casa che s’intravedeva dalla costa ha la sorpresa di trovarvi una poetessa: “ (…) ed io, poco conoscitore della lingua spagnuola, a quell’epoca, parlai poco (…). Dopo d’avermi presentato le poesie di Quintana, ciocchè servì di materia a conversazione, la graziosa mia ospite volle recitarmi alcune composizioni sue, e confesso ne fui ammirato!
Mi si obietterà: Come ammirato, se quasi nulla conoscevi di spagnuolo e pochissimo di poesia? Poco, o nulla so di poesia veramente. Il bello però della poesia sémbravi anche capace di commovere i sordi. La lingua spagnuola poi ha tanta affinità colla nostra, ch’io non ebbi molta difficoltà a capirla nemmeno al principio del mio soggiorno, ove si parlava.” (Ivi, p. 39 e s.).
Qualche giorno dopo, risalendo verso il Paranà, verrà ferito gravemente e pur riuscirà a condurre l’imbarcazione a Gualeguay dove verrà curato e tenuto agli arresti in casa di don Jacinto Andreus; vi passerà ben sei mesi, prima di esser liberato, dopo varie peripezie. Qui imparerà lo spagnolo, quello entrerriano ed orientale, che praticherà in seguito, ovviamente, avendo occasione di conoscere il Nuovo Mondo, la pampa ed il rio nei suoi caratteri più profondi e nei suoi aspetti geografico-naturalistici ed antropologici, proprio come un “gaucho matrero” di cui ci lascerà appassionate descrizioni nelle sue memorie. Ed anche di quella bella gente che lo tratterà al meglio, a parte l’episodio della fuga e della tortura che dovette subire.
            Ritornerà, per qualche tempo, in Brasile, dove conoscerà Anita, e con lei avrà pratica di portoghese: nei sei anni, quasi, passati in Brasile, talora “lontano dal consorzio delle mie relazioni antiche” (p. 123), la sua padronanza del portoghese dovette essere buona come dimostra anche la precisa scrittura dei toponimi e delle altre voci brasiliane nelle sue memorie.
Nella primavera del ’41 passa a Montevideo dove riprende lo spagnolo che costituirà una delle sue lingue preferite: non abbandonerà mai i pantaloni del “gaucho” ed il poncho.
Ancora, sulla sua praticaccia dell’inglese - una lingua che non studiò mai giacché le grammatiche inglesi del suo fondo librario restarono intonse - vi è questa testimonianza: "Lavorai per alcuni mesi con Meucci - che, benché lavorante suo, mi trattò come della famiglia, e con molta amorevolezza. Un giorno però, stanco di far candele - e spinto forse da irrequietezza naturale ed abituale - uscii di casa, col proposito di mutar mestiere. Mi rammentavo d’esser stato marino - conoscevo qualche parola d’inglese (corsivo mio) - e mi avviai sul litorale dell’isola, ove scorgevo alcuni barchi di cabotaggio occupati a caricare e scaricar merci. Giunsi al primo, e chiesi d’esser imbarcato come marinaio. Appena mi diedero retta: (…)”. Garibaldi amò molto l’Inghilterra e gli Stati Uniti, d’un amore ricambiato, a Nuova York si trattenne dal 30 Luglio del 1850 fino all’Aprile dell’anno seguente, ma il suo inglese fu sempre molto interpolato dal francese, ch’è pratica comune di chi conosce questa lingua e non del tutto sbagliata, per potersi esprimere in inglese data la frequentazione di questa lingua con il latino e con il francese. Ciò che nn gli impedì di tentare una conferenza in inglese ch'egli tenne durante il suo soggiorno a Nuova York.
Siamo di fronte ad un panorama complesso e composito, ma mi pare sia giunto il momento di esaminare sia pure brevemente la scrittura di Garibaldi, quella che fa arricciare il naso agli eroi del nostro tempo. Le lingue materne di Garibaldi e quelle che andò apprendendo non hanno le consonanti doppie, e nemmeno l’italiano settentrionale che egli apprese fra Nizza e la Liguria, giacché, come sapete, passata la linea La Spezia-Rimini verso Nord, confine, imposto dall’imperatore Diocleziano si sono conservate, nel latino parlato sul posto alcuni relitti celto-gallici, come espia per spia, la mancanza di doppie, la i con procheilìa, ossia la ü (/y/) francese. Ne risulta che la maggior parte delle varianti che si riscontrano nei suoi scritti sono le doppie per scempie o le scempie per doppie ipercorrette, un po’ come fanno gli argentini, ecco alcuni esempi: richissimi (180), fratanto (151), a pico (151), ragiungiamo (176), barcolando (312), villagio (255), acerchiati (255), di tapa in tapa (319), senza capoti (246) ma nella senza pagina: capotto, infine Apeninno e Pollaco (255) che contengono anche una  ipercorrezione come in collonna (249) ed ovviamente collonnello (94), cuccinavasi la collazione e prendevo matte (63), che ovviamente si accompagna al bellissimo: erba matte (61). Accanto a forme iper-colte ed antiquate, per noi, come: giunsimo (185), guatato (varie volte), non mancano interferenza con il francese, lo spagnolo e con i dialetti ch’egli parlava ma di minore conto, e persino la parte sintattica si può considerare tutto sommato corretta, dal francese abbiamo notato poco fa: materia a conversazione (39), dallo spagnolo: departamento (90), dal dialetto, sargento (85), ponno (180), polzo (312), i scellerati (263) ed altrove in una poesia: dilagna. In compenso si noti che le voci in lingue straniere e sono tante voci, tante lingue, compresi i toponimi e gli antroponimi, voci scritte nella diverse grafie delle lingue usate da Garibaldi sono in genere corrette anzi spesso Garibaldi s’improvvisa lessicografo e traduttore ché spiega nei dettagli il significato della terminologia usata, abbiamo Tunis, Tanger, Isére (562), Lentenay e Dijon (563), Frère de la Côte (57), ma anche: Ritirata su Corrientes e battaglia dell’Arroyo-Grande (145), Gonçales (59), Imiriù (85), Cima da Setta (90), Teixeira (91), Portinho (101), ma anche capon, barrancas, taquara e via dicendo che qui affastello, non mettendo conto di citarli tutti, dirò solo che talora le lingue di partenza ne condizionano la scrittura, recherò un esempio per tutti: Guassù ed in questo gli Argentini si possono rispecchiare, avendo Garibaldi identici tratti distintivi.
A proposito della mia affermazione sulla relativa proprietà della sintassi di Garibaldi dovrei aprire un altro capitolo, su che cos’è l’errore, un argomento su cui ho fatto ben tre corsi di formazione quest’anno, richiestimi dalla “Dante” di Venado Tuerto, dalla scuola “De Amicis” di Rosario e dalla Fedilcit. Rimando pertanto al mio sito: www.nandoromano.it dove è possibile scaricare le lezioni. Ora, supposto che l’errore possa essere una anomalia rispetto ad una norma, una variante, posso solo domandarvi che cosa può significare la parola norma nell’Italia del tempo?  Insomma,in quella serie di Stati in cui l’italiano, salvo per la Toscana e parte dell’Umbria, era parlato da una parte davvero minima della popolazione, forse l’1 % (compreso i toscani erano il 3,5% in tutto), e chi lo parlava era bilingue, o diglossa, come si dice, unendo l’italiano al dialetto sistema linguistico preponderante. Bisgona precisare, inoltre, che, come succede ancora oggigiorno, chi credeva di parlare in italiano, in realtà si esprime in italiano locale, con una più marcata la differenza fra il toscano e questi diversi italiani che non oggi, e gli stessi toscani non parlavano e non parlano, in genere, l’italiano ma la variante toscana! Sembra un paradosso, quando nel 1992 sono andato ad insegnare a Montecatini Terme, i miei alunni capivano il mio meridionale di koiné io non capivo quando essi credevano di parlare in italiano, cioè in toscano stretto. Per cui, ancora oggi, al Nord si dice pala per palla ed al Sud si dice bbello o ggiornale per bello e giornale, ciò che condiziona e condizionava la scrittura.
Con l’Unità l’Italia aveva bisogno di aprirsi, alle varianti regionali, come alle altre lingue, in ciò le memorie di Garibaldi costituiscono un testo prorompente di spontaneità. Su questo e su altri mille testi così vivi e pregnanti, non bloccati dai puristi, si sarebbe dovuta basare la nuova lingua, come Graziadio Isaia Ascoli, fondatore della glottologia auspicava. Manzoni la rinchiuse in una parlata municipale e ne paghiamo lo scotto ancora oggi, giacché solo oggi a stento l’italiano sta diventato una lingua realmente parlata, ma in quanto a scrittura essa è fortemente controllata e poco popolare. La lezioni di Garibaldi, di Pascoli, di Ascoli non fu capita in Italia, sicché la nostra lingua, specie scritta, non è ancora una grande lingua di partecipazione e specie per la scrittura.
            Normalmente si ritiene che Garibaldi conoscesse solo cinque lingue, compreso il tedesco, di cui non ho trovato traccia, qui ne abbiamo esaminate quasi otto, ma quel che più conta sono le capacità comunicative dell’Eroe, che rendono ancor più complessa la situazione: ed in queste sue possibilità debbo aggiungere la conoscenza di linguaggi settoriali e di gerghi. I linguaggi settoriali sono lingue specialistiche, i gerghi: lingue segrete: partendo da quest’ultimo nessuno potrà negare che Garibaldi conoscesse il rituale della massoneria di cui era uno dei più insigni rappresentanti. Conosceva bene la terminologia marinaresca. Questa conferenza si svolge durante una settimana della lingua dedicata la mare, ebbene il capitano Garibaldi è padrone di una terminologia appropriata in varie lingue, dai nomi delle imbarcazioni: feluco, patacho, sumaca, erano il pane quotidiano di Garibaldi: “Orza una quarta! Orza un’altra quarta! E credo avevo già fatto orzare più d’un intiero vento (cioè da quattro a cinque quarti) ed a mio dispetto la costa era sempre più vicina.” (33). Afferma ricordando quando fu in pericolo di naufragio fra Maldonado e Montevideo.
L’uomo davvero libero, specie nel Nuovo Mondo, vive non solo sul mare o sui fiumi ma anche nelle distese ricche e sconfinate, ed ecco Garibaldi appropriarsi di tutto un variegato lessico, in varie lingue, preso a  prestito dal “gaucho matrero” e dalla sua cultura sicché sembra inserirsi nel filone della letteratura gauchesca, seguendo Bartolomé Hidalgo e Hilario Ascasubi, ed anticipando Estanislao del Campo e, finalmente, José Hernández con il Martin Fierro. Se volete ancora una prova delle sue possibilità linguistiche e culturali leggete la relazione fatta da uno specialista di agronomia Garibaldi a Caprera per l'ingegnere Eugenio Canevazzi – 1866, in cui si dimostra che l’Eroe trasformò lo scoglio di Caprera in un Eden, mostrando competenze complesse di agronomia, semplicemente inserite nel contesto, sicché, ad esempio, alla fine del 1856, dopo annotazioni contabili sulle patate, sugli agnelli e sui fagioli, nei suoi appunti si ritrova il suo "programma italiano": "Bisogna fare un'Italia avanti tutto. L'Italia è oggi composta dagli elementi seguenti: Piemonte, repubblicani, murattisti, borbonici, papisti, toscani e altri piccoli elementi, che benché vicini al nulla non mancano di nuocere all'unificazione nazionale. Tutti questi elementi devono amalgamarsi al più forte o essere distrutti; non c'è via di mezzo! Il più forte degli elementi italiani io credo che sia il Piemonte, e consiglio di amalgamarsi a lui. Il potere, che deve dirigere l'Italia nell'ardua emancipazione dal giogo straniero, deve essere rigorosamente dittatorio". Poi ricomincia tranquillamente a segnare: "Gennaio 16 - una coppa di fave: £ 5,94...".
654Purtroppo coloro che fanno la storia facile continuano, invece, a dir male di Garibaldi, di questo letterato ed uomo di cultura, straordinario, che può essere portato come esempio non solo ai nostri alunni. A proposito del signor Arena, maestro di Garibaldi, Indro Montanelli e Marco Nozza (Garibaldi, BUR, 2002) affermano: “La grammatica e la sintassi italiane non riuscì mai a insegnargliele: Garibaldi vi rimase refrattario per tutta la vita, e purtroppo lo dimostrò in tutte le occasioni che via via gli si presentarono.” (p. 22). Sull’altro versante, quello della controstoria, Giorgio Dal Boca, affermando che sul piroscafo che lo conduceva a Marsala egli non fece null’altro che scrivere poesie - giacché tutto sarebbe stato concordato a priori e l’esercito borbonico disfatto non dai garibaldini ma a mezzo della corruzione degli ufficiali - ha il coraggio di concludere che :”Garibaldi non aveva più niente da fare. Poteva continuare a litigare con la grammatica poetica: (…)” (Piemme, p. 179). Come sempre, invece, componeva poesie: di scarso valore, come i suoi romanzi, ma pur sempre scritture, ho già detto che Garibaldi raggiunge risultati notevoli nelle descrizioni del Nuovo Mondo di cui son piene le sue memorie.
Infine ho voluto aggiungere, con la collaborazione di Eve Baili, una piccola analisi grafologica, che purtroppo non ha potuto esser condotta sui testi originali. Ne vien fuori una personalità idealista e romantica: la scrittura segue una linea in genere retta, come i tratti superiori delle t che son paralleli, ciò che denota volontà, tensione e sacrificio verso mete talora parziali condizionate dal dolore che si mostra nelle linee acute, interrotte. Il piano inferiore della scrittura minore di quello superiore mostra disinteresse verso i benefici personali, lettere iniziali adornate la tensione verso la cultura, verso la madre, Rosa Raimondi, verso la grande madre. Voglio lasciare la parola ad Eve Baili: “Es la letra de un desterrado, de un perseguido, por sus ideales, sus recuerdos, su música, sus paisajes, sus amores, su mar, su madre... En su escritura se deduce que era un hombre triste, quizás porque lo que logró no alcanzó su ideal supremo, ver la Italia unida como el la sueñaba, su acción fue un germen que prosperó después, ¿podríamos decir que es la letra de un precursor? La letra quiere desprenderse del papel, letra de viajero que se nutrió en otros  paisajes pero añoró el suyo, habló varias lenguas, buscando quizás como el sabir, una letra uniforme que vincule todos los mares.”. ¡Un letra uniforme que vincule todos los mares! E noi, anche.

Nando Romano

La conferenza è stata ripetuta presso l’UMSA di Buenos Aires il giorno 30 Maggio 2007.


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